mercoledì 5 febbraio 2020

Otto semifinali, otto finali, otto vittorie. Il bottino di Novak Djokovic agli Australian Open è storia, Melbourne è casa sua e anche quest'anno lo ha dimostrato. Diciassette titoli del grande slam, ritorno in vetta alla classifica mondiale, Novak ha fatto capire che quest'anno ha tutte le intenzioni di provare a dominare il circuito in lungo e in largo come fatto nel 2011 e nel 2015.
Vincere in Australia è una "condanna" per quanto riguarda il Grande Slam, in quanto si rimane (ovviamente) l'unico candidato a poterlo completare. Quell'impresa impossibile, compiuta nella storia del maschile l'ultima volta da Rod Laver, che tra l'altro proprio in Australia conoscono parecchio bene, è l'unica opera d'arte che manca alla collezione dei big 3 e potrebbe essere quella Gioconda in grado di definire chi fra loro sia il miglior tennista di tutti i tempi.
Tutti e tre hanno giocato hanno giocato tutte e quattro le finali in un anno, ne hanno vinti tre in una sola stagione, ci sono andati vicino (Djokovic anche riuscito, seppur in un ordine diverso, ndr) ma è sempre mancato quel qualcosa. Federer ha sempre trovato quel ragazzo spagnolo di nome Rafa sulla sua strada, precisamente in quel di Parigi, che per tre anni diversi ha fermato il suo cammino; lo spagnolo stesso è stato invece spogliato dei sogni di gloria da Andy Murray che nel 2010, anno in cui poi vincerà tre slam, lo eliminò ai quarti di finale a Melbourne; Nole invece nelle sue annate d'oro, appunto 2011 e 2015, è sempre stato condannato al Roland Garros: in semifinale con Roger nel 2011 e in finale (epica, ndr) con Wawrinka nel 2015.
Chiaramente sono diversi i motivi per cui è tutt'altro che semplice conseguire la vittoria di tutti i quattro Major in una sola stagione: la condizione fisica, quella mentale, la gestione delle energie e della classifica... in più non bisogna mai dimenticarsi, anche se a volte verrebbe da farlo, che ci sono altri giocatori che per lo meno covano il desiderio di alzare il trofeo di un titolo slam.
Quest'anno l'unico che ha diritto a un tentativo è l'attuale numero uno e la domanda è: è davvero impossibile? Sappiamo che a livello mentale Djokovic non ha secondi e (almeno negli ultimi anni, ndr) neanche a versatilità: è in grado, almeno nella maggior parte dei casi, di imporre il suo gioco solido in tutte le superfici; in più, se per caso dovesse essersi prefissato questo come obiettivo, sappiamo che è duro a lasciar stare quando decide di voler vincere qualcosa in particolare o conseguire un record.

A nostro parere gli ostacoli sono essenzialmente due: il fisico e Nadal a Parigi. Fa sicuramente strano leggere che la tenuta fisica possa essere un problema il serbo, però la clessidra scorre per tutti e anche per lui e vincere quattro tornei da sette turni a tre set su cinque, dovendo inoltre gestire il resto della stagione e in parte la classifica, non è cosa semplice neppure per un robot tira vincenti come lui. Soprattutto la gestione della stagione sulla terra sarà fondamentale: per vincere Parigi deve arrivare a fine maggio con fiducia, la giusta quantità di terra sotto le scarpe e il maggior numero di energie possibile. E, per collegarci al secondo ostacolo, deve sperare che Nadal non sia al 100%, almeno per un'eventuale finale/semi contro di lui. Infatti, il Philippe Chatrier è casa dello spagnolo e se in forma risulta davvero imbattibile e i suoi 12 titoli al Roland Garros lo dimostrano; come sappiamo il punto di vista fisico è delicato anche per l'attuale numero due al mondo, che però, a buon ragione, cerca di concentrare la sua preparazione in modo tale da arrivare al top della forma proprio per il Major su terra.
Il Djokovic di Melbourne è sembrato uno di quelli agguerriti, di quelli che vogliono dimostrare a circuito (e pubblico?) che se la coppia Rafa-Roger non dispone di 30 slam per parte, è soprattutto merito (o colpa, dipende dal tifo) suo: questo basterà a sfatare un tabù che resiste dal 1969?
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Djokovic può fare il grande slam?

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lunedì 18 novembre 2019

Stefanos Tsitsipas è il maestro del 2019: dopo una partita intensa decisa al tie-break del terzo set (6-7 6-2 7-6), il greco ha sollevato il trofeo più importante della sua carriera ai danni di un comunque grande Dominic Thiem. Dopo una stagione di picchi e qualche tonfo, Tsitsipas ha confermato le impressioni di (quasi) tutti, ovvero che tra i giovani, insieme a Medvedev, lui sia il più pronto per l'assalto alle prime posizioni e quindi ai titoli del Grande Slam che ad oggi rimangono un'esclusiva riservata ai Fab3.

Una cosa è certa: il pubblico lo ha scelto come beniamino per il futuro. Uno stile di gioco anomalo, con una ricerca della profondità costante ma senza l'ossessione per le linee, certamente offensivo e un atteggiamento emotivo ma non scontroso in campo hanno fatto sì che gli spettatori si sentissero coinvolti e scegliessero le sue parti; se per la maggior parte del tempo il pubblico di Londra (che comunque non è assolutamente quello di Wimbledon, ndr) era stato imparziale, al momento decisivo si è apertamente schierato nei confronti del ragazzo classe 1998, che è rimasto sorpreso e contento di ciò come ammesso da lui stesso nelle dichiarazioni post-partita.

È assolutamente troppo presto per poter dire che questo sia il torneo della consacrazione, è sufficiente guardare Zverev: in seguito alla vittoria delle Finals ha giocato la peggior stagione in carriera da quando è ad alti livelli. Ergo, il ragazzo ha ancora da farne di strada. Perché il Nadal delle Finals non è il Nadal del resto dell'anno, perché Djokovic non avrà alcuna intenzione di lasciare allo spagnolo la numero uno per troppo tempo, perché Federer non sembra avere intenzione di battere bandiera bianca... In più non bisogna dimenticarsi di Medvedev, autore di una stagione sul cemento americano a dir poco sorprendente, di Zverev che ha sicuramente voglia di riscatto, dello stesso Thiem che ha giocato una gran stagione, magari di uno Shapovalov reduce dalla sua prima finale 1000...
Di strada da fare insomma ce n'è, di concorrenza ancor di più, ma il talento non manca al greco, né la voglia e soprattutto la personalità per competere a certi livelli e in certi palcoscenici in cui sembra trovarsi a proprio agio. E ieri il pubblico dell'O2 Arena se n'è accorto.
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Tsitsipas: maestro pronto allo slam?

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venerdì 15 novembre 2019

Ci sono attimi in cui si pregusta la gioia e qualche minuto dopo ci si ritrova col groppone in gola all'improvviso, senza aver però mai provato quella gioia nel frattempo: questo è successo a Roger Federer nella finale dell'ultimo Wimbledon. La vittoria a portata di mano, a un punto, un punto dal ventunesimo titolo slam che sarebbe stato ancor più speciale perché dall'altra parte della rete c'era un certo Novak Djokovic che qualche dispiacere negli ultimi di carriera gliel'ha portato. E invece, nell'incredulità generale, tutto è passato e il titolo è andato al rivale come al solito di ghiaccio, spietato (leggenda). Tra le mani un piatto di un secondo posto peggiore di un pasto avvelenato e l'amarezza di essersi creato e aver allo stesso tempo sprecato una delle ultime occasioni di portarsi un altro major a casa. Quello sguardo sulla panchina tanto triste quanto eloquente è e rimarrà una delle immagini più malinconiche della sua carriera.

Il resto della stagione è andato probabilmente sull'onda e con le scorie di quelle partite, torneo di Basilea (103 in carriera, ndr) a parte. E anche queste Atp Finals non erano iniziate bene, con una sconfitta in due set contro Thiem e una prestazione non esaltante col nostro Berrettini.
La partita contro Djokovic, decisiva per l'accesso in semifinale, vedeva il serbo con tutti i favori del pronostico che invece, nonostante la sconfitta in una partita intensa con Thiem, era parso molto centrato. Invece Federer è riuscito nel momento decisivo a innalzare il livello, mantenendo una continuità al servizio straordinaria, realizzando almeno due vincenti a game e riuscendo anche a convertire palle break con una percentuale molto più alta del solito. 6-4 6-3, risultato netto, come la superiorità nella prestazione. Ma i numeri, le statistiche e le percentuali svaniscono tutte su quel matchpoint convertito e quel salto accompagnato da un urlo, nulla di esagerato (non è nel suo stile) ma deciso come a dire "io sono ancora qua, nonostante tutto". Nonostante l'età che avanza, i rivali che aumentano, i numeri e i record che si accorciano, le occasioni sprecate e la finestra di averne altre che pian piano si chiude. Però forse è questo che lo rende speciale: alternare momenti di divinità quando colpisce la pallina a momenti di superficiale, palpabile umanità; passare da colpi inimitabili a non convertire match Point perché emozionanti, dallo schiacciare gli avversari a non inseguire una pallina di troppo perché a quasi quarant'anni le energie stringono.

L'eternità di un campione umano, sarà questo che verrà ricordato. Probabilmente molti dei suoi record verrano superati ma se si potesse misurare l'amore dei fan, ho dei dubbi che qualcuno ne abbia goduto di tanto quanto lui e probabilmente per questa ragione: la gente rivede sé stessa in un uomo che ammira e che mette su un piedistallo.
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Federer: l'eternità di un campione umano

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giovedì 17 gennaio 2019

Non lo so, non lo sai, non lo sa nessuno. Lo sa solo lui. Lo sa solo Andy Murray cosa si possa provare a dover arrendersi a forza. Perché per un combattente come lui, che in carriera ha sempre corso dietro ogni pallina, dando racchettate alle critiche, alle vittorie degli altri, a chi pensava che lì nell'olimpo lui fosse fuori luogo, essere costretto a lasciare così deve essere la cosa più dura. Chi in questi anni ha dubitato di lui ora se ne pentirà, perché di combattenti come lui ce ne sono stati pochi, probabilmente non ce n'era nessuno.



Andy Murray ha annunciato il ritiro, quella al primo turno degli Australian Open contro Bautista-Agut potrebbe essere stata la sua ultima partita in carriera, anche se tutto il mondo tennistico si augura possa chiudere le danze a Wimbledon davanti al suo pubblico, nello stadio che lo ha consacrato con due vittorie slam e una medaglia d'oro in casa storica.

Il dolore all'anca era troppo, troppo per resistere e continuare a competere ai suoi livelli. Le lacrime in conferenze stampa sono emblematiche: il sogno nel cassetto, la passione di una vita stroncata da un infortunio avuto nel periodo della maturità, avuto dopo il miglior periodo della propria carriera in cui aveva raggiunto la posizione numero uno del ranking e zittito un po' di invidiosi.
Una carriera travagliata di un animo combattuto e mai contento finita nel modo peggiore.
La frustrazione di essere nato in un'epoca sbagliata, con fenomeni come Federer e Nadal e soprattutto con quel coetaneo che di nome fa Djokovic sempre pronto a togliergli la torta da sotto il naso. Quell'oblio dell'essere il meno alieno dei marziani e il primo dei mortali, quelle infinite, troppe finali perse, quei h2h sempre troppo severi. Le critiche, gli sfottò, incoraggiati da un atteggiamento in campo alla McEnroe di chi non è mai contento e vuole di più. A livello di carattere e determinazione, anche se so di non avere molti sostenitori, Murray si è dimostrato il più grande tra i Fab4. Federer è talento puro, Nadal l'atleta per definizione, Djokovic la perfezione psicologica, ma a livello di carattere puro lo scozzese è stato il migliore. Perché per anni è stato quello "escluso" dai giochi, ma nonostante questo ha continuato a lottare, caparbiamente e ogni giorno, migliorando il suo gioco dal servizio al rovescio, dal dritto alla rete; ha migliorato spaventosamente il suo gioco sulla terra e ha incrementato una solidità mentale che a inizio carriera nessuno avrebbe immaginato gli sarebbe appartenuta. Non ha mai mollato, anche quando gli altri avevano gli slam in doppia cifra e lui arrivava sempre a un passo da vincerne uno ma senza riuscirci.

Ha sempre lavorato duro, senza piangersi addosso e comprendendo i meriti degli altri, rimanendo sempre convinto di poter colmare quel gap.
Purtroppo il destino è crudele e quando quel gap sembrava colmato, quando quel numero uno l'aveva finalmente raggiunto e nessuno più dubitava che gli elogi degli esperti fossero a caso, ci si è messa l'anca. Due anni di tormenti provando a rientrare e lottare contro un dolore lancinante fino ad arrivare a pochi giorni fa: una conferenza stampa, le lacrime, il dolore di chi ha questo sport ha dato tutto e ha ricevuto forse non abbastanza.
Il tennis ha un debito con Andy Murray e forse non glielo pagherà mai, ma si sa: le regole le fa il banco.
Non ha smesso di lottare, qualcuno lassù gli impedito di continuare a farlo.

Sir Andrew Barron Murray, still fighting till the fuc*ing end.

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Andy Murray: Till The End

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